venerdì 23 novembre 2012







ed ho provato
l’insufficienza delle parole
la sordità dei suoni
l’arrogante banalità del dire
di fronte al mistero
all’oscurità

Apro gli occhi: c’è buio, tanto buio intorno a me. Ho paura. Non ho più certezze. Non so se tutto ciò è sogno o realtà crudele. Non capisco. Non mi è dato capire. Il mistero mi sovrasta. Anche ora, che sono giunto alla fine. Inutilmente, dunque, ho sperato la conoscenza. Credevo che più mi sarei avvicinato al mio finire e più avrei avuto conoscenza. E invece solo un qualcosa, un qualcosa che ripeto: non capisco!
  Intorno a me lunghe pareti scivolose e scale: tante, tante scale, disegnate l’una a fianco all’altra, tutte tese verso l’alto, anzi fuggono e formano vortici.
  Che strano abisso in cui sono precipitato! Sento tanto freddo: i brividi mi assalgono, mi violentano fino a costringermi allo spasimo.
  In alto, forse, al di sopra dell’“alto”, una Luce. Ma è così lontana da me! Sento però che posso raggiungerla. Sì, posso. È difficile, ma posso. Debbo almeno sfiorarla. Raccoglierò le forze rimastemi e come non mai avrò volontà.
  VOLONTÀ
  FORZA DEI DEBOLI DEGLI INCAPACI
   A me, del mio corpo, è rimasto soltanto il busto, il bacino, le gambe, la testa e lo strazio. Disperato cerco le mie mani: affondano sotterra e fuggono inorridite. Unghie strappate e brandelli di carne sospesi nel “qualcosa” che non capisco. Non è vuoto. Non è Nulla. Non so, non capisco. Volteggiano e basta, sputando sangue.
   LA LUCE
  NON È MAI SOTTO DI NOI
   Nel mio cuore, sabbia terra sassi. Il deserto della vita mi ha invaso: oasi una volta pura, tanto vogliosa di donare, di creare.
  Oggi è DOMENICA.
  Otto giorni fa, e da sempre, ricorreva la vigilia del mio strazio. Di me stanco di essere. Nessuno lo sapeva. Io, ero deciso ad andarmene: ero pronto.
 Ora, non lascerò libero il dolore, lo scaccerò. Vivere così a lungo, non ne è valsa la pena, non ne vale, per poi in un attimo, vomitarsi l’anima con un respiro sbagliato, mal formato.
   VOCI  LONTANE
   URLA  MANI PALPANTI  NENIE
   In me, dolore e silenzio, solitudine e rimpianto. La lunga notte era troppo vicina, perché potessi pensare di salvarmi. Dormii, anzi no! Viaggiai e vissi ancora, e vivo ancora; ma per colpa di quanti non mi hanno lasciato andare. Guardandomi, i loro occhi m’imploravano di restare. Ed io ho ceduto per un po’. Non sapevano, non sanno, quanta sofferenza e quanta forza per dominarla, per poter fino alla fine sorridere e rispondere alle loro insistenti domande: “sì, ora sto meglio”, “sì, un po’ meglio”. Così è l’amore.
   È PIÙ DIFFICILE MORIRE
  CHE VIVERE
   È presto, dire che sia già LUNEDÍ.
  Sono ancora le cinque: è buio, l’oscurità della vita, della mia esistenza, non mi dà riposo. Piango e mi riaddormento.
   DORMIRE
   È UN PO’ CAMBIALIZZARE LA MORTE
  Fingo di non pensare, m’illudo, mi ubriaco di sogni, e il giorno come un fiume finisce in un mare di lacrime.
  Dormo e sogno, delle urla mi svegliano: il silenzio è lugubre. Sono come richiamato alla “vita”.
  Oggi è il mio compleanno. Molte le telefonate e le visite. Le ho appuntate tutte su di un foglio, perché non ne andasse perduta la memoria.
 Ho ricevuto anche regali. Li ho accettati: era l’unico modo per stare al gioco, alla finzione. Li ho scambiati con un sorriso, restituendo l’illusione che sarei vissuto ancora. Poi, la torta! La mia ultima torta: alla panna, come piace a me. Come piaceva.
  Oggi è MARTEDÍ.
  L’ansia si fa sempre più intensa ed è già sera. Deluso, da mille illusioni, da fugaci speranze, da sorrisi inesistenti, mi arrendo: senza più forze, ormai. Il mio destino è segnato; il vuoto è in me: fingo, e cado nel tempo. Già tutto è passato, tutto si è dissolto.
  LA MIA FINZIONE
  MI INGANNA
  Sogno di far visita alla morte, ma lei non c’è. E a me, non bastò tutta la notte fra incubi d’attese e pianti di strana compassione, per cercarla.
   MERCOLEDÍ.
   Che strano risveglio: respiro male, il singhiozzare e il frignare non mi danno pace, ancora mi perseguitano.
  Avevo incontrato l’amore: mi salutava con un bacio sulla fronte. Gli dicevo di restare, ma niente; come sordo mi sfuggiva, ed io impotente, fermo, indifferente, chiudevo gli occhi, gli voltavo le spalle: rinunciavo.
  È ancora mattino. Fra sogni e lacrime, il giorno... muore, è finita. A me, in uno strano letto freddo, non è rimasto che un pezzo di lenzuolo.
   Anche GIOVEDÍ è arrivato.
   Mi sveglio e me ne pento, avrei voluto ritardare il più possibile questo mio risveglio, l’avrei voluto rimandare a fine giorno. E ancora il dolore mi assale, vince.
  Io che sono sempre stato un frignone, quanta sofferenza, ora. Che debbo fare per non sciuparla? Nessuno mi sa dare risposta.
  Ora sento i miei pensieri ammassati dentro di me, sembrano voler scioperare, rifiutano il controllo della mente, che disperata invoca aiuto al silenzio. La confusione è l’unica a dirigere il mio stato d’animo. Ho sonno, vorrei dormire sempre e volare nell’infinito.
   PAROLE VELATE  SORRISI OSCURI
   SPERANZE FORZATE
   Per istinto cerco di distrarmi; corro lungo l’arco di tutta la giornata: la mia giornata. Di sera, senza più respiro; finalmente posso andare a dormire. Prima di addormentarmi, però, mi libero: allontano i miei pensieri, cerco di alleggerire la mente. Anche il mio corpo cerco di alleggerire; quasi un voler raggiungere uno stato di levitazione. Con forte desiderio mi addormento.
   VENERDÍ.
   Ancora, mi sveglio; il giorno sembra nuovo.
  Oggi sono invaso da un leggero stato d’indifferenza: non vedo, non sento, eppure parlo, mi sforzo.
  Il Sole albeggia appena; io prego, e soffio verso di Lui: Lo incito, mi incito. Una luce di speranza nuova, appare nella mia mente, ombrata ancora da uno strano senso di amarezza che si era a lungo impadronita di me.
  Del mio “ieri” non mi erano rimaste che lacrime.
   L’INSODDISFAZIONE
  È LO SPRONE DEI GRANDI
   Sento come spezzarmi in due. Il dolore avanza e l’angoscia tenta i suoi assalti di morte. In me conflitto, guerra, lotta senza speranza. Sono stanco di essere sempre eguale.
  Ad un tratto, come per incanto, una voce stridula ma armoniosa dal mio Io più profondo sussurra: “lascia che i tuoi chiodi si tramutino per libera scelta in abbraccio”.
  Ho pensato di scrivere un racconto, una fiaba, se ne avrò il tempo.
  Vorrei tanto che il mio dolore si mutasse in nuovo humus per la vita. In esso sento di appartenere un po’ a tutti. Mi sento umano: il dolore non coglie differenza alcuna fra bianchi e neri, fra diversi e normali.
   VIVERE È...
   CONTINARE ANCORA
   SABATO.
   Oggi mi sento più forte, più uomo.
 Come i cani quando si scrollano l’acqua di dosso, anch’io cerco di scrollarmi l’angoscia e la paura del ricordo di quei “giorni-sempre”, quando la superficialità mi vinceva e la mia mente era solo occupata dalla mia mente.
   LA FEDE
   SIAMO NOI
   Il mio respiro si fa più gradevole, il giorno profuma di libertà, in me un gran senso di nudità, di ricchezza rinata, improvvisa. Adesso sento di nuovo la vita vivere, il mio cuore battere a ritmo di felicità, cosciente di essere per il mondo. Lascerò una mia dolce impronta e camminerò senza né timori né silenzi.
  Assorto in sempre nuovi pensieri, allungo le mani, le bacio, le incoraggio, le carezzo, guardo in alto: la Luce non è più lontana. Ora, è vicina, vicinissima: è quasi in me.
  Domani, finalmente, ad alba inoltrata, col sole già alto nel cielo, mi addormenterò sereno e, allora... ancora stelle.
 (Cesare Cellini, Ad alba inoltrata [diario dell'ultima settimana di vita], in Cháris, 1993, pp. 59-67)





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