ed ho provato l'insufficienza delle parole, la sordità dei suoni, l'arrogante banalità del dire,
di fronte al mistero, all'oscurità
(C. Cellini, in Ancora Stelle, 1993, p. 57)
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12 Settembre, 1992.
Da quando sono tornato
dall’ospedale non faccio che indagare, mettere in discussione me stesso e le
verità acquisite.
Come i cani abbandonati, che
ripassano l’intera città pur di trovare un avanzo che calmi i morsi della fame
e assicuri loro ancora un giorno, anche io non faccio che rimestare le carte
dei filosofi per assicurarmi quel tanto di vero per la mente, che mi permetta
di oltrepassare la soglia della morte senza paura.
Per adesso mi sento bene, ma
so che questo benessere è provvisorio e che prima o poi dovrò nuovamente arrendermi
ai medici e alle medicine. Ciò alimenta il mio tormento, il continuo chiedermi
se esiste un presente oltre il futuro e a cosa o a chi vado incontro, quando
questa mia malattia, perduto ogni interesse per me, mi abbandonerà: misero
avanzo di un pasto consumato troppo in fretta.
Costretto dal bisogno, spinto
dalla necessità, mi affido alla lettura dei Pensieri di Pascal, Del
sentimento tragico della vita di Unamuno, della Filosofia di Jaspers,
e mi sforzo di comprendere fino in fondo quell’«essere-per-la-morte» di
Heidegger; mi sembra, però, di percorrere vie a tratti oscure, a tratti
luminose: e l’inquietudine e l’angoscia prendono il sopravvento.
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