12 Febbraio 1993
Se è vero, come afferma Martin Heidegger, che «al dire poetico è affidato il senso della verità dell’essere», mi chiedo chi mai sia un poeta. Domanda che mi inquieta e spaura, dal momento che non riesco a resistere al canto.
Io non so se sono veramente
un poeta; so però che nell’osservare la vita ogni giorno, io provo grandi
emozioni e nello steso tempo un bisogno irresistibile di indagare, di scoprire
quanto è nascosto: di svelare.
È forse ansia di verità, la
mia? Non saprei, ma l’angoscia che mi serra l’anima mi fa credere di sì.
So, però, che è difficile
riconoscere le verità dei fatti umani e della storia. Si tratta sempre di
verità in fieri, soggette comunque a mutamento. Sono verità parziali, assai
parziali, irrimediabilmente legate alla parzialità della nostra conoscenza, del
nostro linguaggio.
Se fossimo davvero capaci di
conoscere una sola di queste verità parziali, noi capiremmo fino in fondo il
perché viviamo, il perché noi e non altri, il perché qui e non altrove, in
questo tempo e non in altro: il perché di tanto rovello, il perché della
condanna alla necessità di volere a tutti i costi sapere.
Mi si dice che per poter
conoscere tali verità occorre prima che la storia si concluda: si compia. Non
mi è certo di conforto questo pensiero, né mi consola, dal momento che io
stesso appartengo alla storia e certamente non potrò sopravvivere ad essa.
E allora? Generato alla
coscienza dell’oscurità debbo forse fare ricorso alle verità metafisiche? Vuol
forse dire questo Heidegger, quando parla di «senso della verità dell’essere»?
No. Assolutamente, no. Ma se
per assurdo volesse dire questo, non mi resterebbe che esaurire tutte le
speranze in una semplice e pura intuizione, attorno alla quale lasciare che il
mio pensiero s’affanni a costruire.
E intanto la morte, e con
essa puntualmente anche il dolore, continua la sua metodica, disciplinata
azione, lasciando irrisolti i perché. Che cosa mi resta, dunque, da fare, se
non voglio impazzire?
Nulla. Non mi resta da fare
proprio nulla, se non cantare: un canto povero e solitario, come povera e
solitaria rimane la voglia di amare.
Sì, cantare: perché attraverso
il canto avverto il senso del mutamento; percorro un cammino, anche se il luogo
verso il quale è diretto sfugge al mio sapere: appartiene al sogno, all’Utopia.
Per questo, forse, non v’è
canto che non abbia in sé note tristi e melanconiche e, nello stesso tempo, non
celi la parola per la quale la solitudine del cuore e della mente diventa
accettazione della condizione umana.
Una cosa, però, avverto ogni
qual volta mi accingo a cantare: che, al di là di ogni indagine filosofica,
comunque si risolvano alla fine le cose, nell’estrema indigenza del nostro
essere, il rivelarsi della Parola mi aiuta a capire che nel buio della conoscenza
è meglio stringerci gli uni gli altri, lasciando libera in noi la presenza
forte e irrinunciabile di EROS, senza che alcuna differenza ne costituisca la
sua prigione.
(Cesare Cellini, 12 Febbraio 1993, da Frammenti d'un Journal intime, 1998, pp. 26-27)
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