venerdì 16 novembre 2012



12 Febbraio 1993


Se è vero, come afferma Martin Heidegger, che «al dire poetico è affidato il senso della verità dell’essere», mi chiedo chi mai sia un poeta. Domanda che mi inquieta e spaura, dal momento che non riesco a resistere al canto.
      Io non so se sono veramente un poeta; so però che nell’osservare la vita ogni giorno, io provo grandi emozioni e nello steso tempo un bisogno irresistibile di indagare, di scoprire quanto è nascosto: di svelare.
     È forse ansia di verità, la mia? Non saprei, ma l’angoscia che mi serra l’anima mi fa credere di sì.
So, però, che è difficile riconoscere le verità dei fatti umani e della storia. Si tratta sempre di verità in fieri, soggette comunque a mutamento. Sono verità parziali, assai parziali, irrimediabilmente legate alla parzialità della nostra conoscenza, del nostro linguaggio.
     Se fossimo davvero capaci di conoscere una sola di queste verità parziali, noi capiremmo fino in fondo il perché viviamo, il perché noi e non altri, il perché qui e non altrove, in questo tempo e non in altro: il perché di tanto rovello, il perché della condanna alla necessità di volere a tutti i costi sapere.
     Mi si dice che per poter conoscere tali verità occorre prima che la storia si concluda: si compia. Non mi è certo di conforto questo pensiero, né mi consola, dal momento che io stesso appartengo alla storia e certamente non potrò sopravvivere ad essa.
     E allora? Generato alla coscienza dell’oscurità debbo forse fare ricorso alle verità metafisiche? Vuol forse dire questo Heidegger, quando parla di «senso della verità dell’essere»?
     No. Assolutamente, no. Ma se per assurdo volesse dire questo, non mi resterebbe che esaurire tutte le speranze in una semplice e pura intuizione, attorno alla quale lasciare che il mio pensiero s’affanni a costruire.
     E intanto la morte, e con essa puntualmente anche il dolore, continua la sua metodica, disciplinata azione, lasciando irrisolti i perché. Che cosa mi resta, dunque, da fare, se non voglio impazzire?
     Nulla. Non mi resta da fare proprio nulla, se non cantare: un canto povero e solitario, come povera e solitaria rimane la voglia di amare.
     Sì, cantare: perché attraverso il canto avverto il senso del mutamento; percorro un cammino, anche se il luogo verso il quale è diretto sfugge al mio sapere: appartiene al sogno, all’Utopia.
     Per questo, forse, non v’è canto che non abbia in sé note tristi e melanconiche e, nello stesso tempo, non celi la parola per la quale la solitudine del cuore e della mente diventa accettazione della condizione umana.
     Una cosa, però, avverto ogni qual volta mi accingo a cantare: che, al di là di ogni indagine filosofica, comunque si risolvano alla fine le cose, nell’estrema indigenza del nostro essere, il rivelarsi della Parola mi aiuta a capire che nel buio della conoscenza è meglio stringerci gli uni gli altri, lasciando libera in noi la presenza forte e irrinunciabile di EROS, senza che alcuna differenza ne costituisca la sua prigione.
(Cesare Cellini, 12 Febbraio 1993, da Frammenti d'un Journal intime, 1998, pp. 26-27)

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